COMENTARIO ITALIANO

La parola del Signore che ci invitava, domenica scorsa, a perseverare nella preghiera – Dio ascolterà coloro che perseverano nella loro preghiera – risuona ancora alle nostre orecchie mentre il testo evangelico di oggi completa l’insegnamento sulla preghiera: bisogna certamente pregare, e pregare con insistenza. Ma questo non basta, bisogna pregare sempre di più. E il primo ornamento della preghiera è la qualità dell’umiltà: essere convinti della propria povertà, della propria imperfezione e indegnità. Dio, come ci ricorda la lettura del Siracide, ascolta la preghiera del povero, soprattutto del povero di spirito, cioè di colui che sa e si dichiara senza qualità, come il pubblicano della parabola. La preghiera del pubblicano, che Gesù approva, non parte dai suoi meriti, né dalla sua perfezione (di cui nega l’esistenza), ma dalla giustizia salvatrice di Dio, che, nel suo amore, può compensare la mancanza di meriti personali: ed è questa giustizia divina che ottiene al pubblicano, senza meriti all’attivo, di rientrare a casa “diventato giusto”, “giustificato”.

I giusti agli occhi di Dio

Dal Vangelo di oggi emerge una caratteristica degli uomini di tutti i tempi e di ogni categoria: il grave difetto di credersi ?migliori’ e, quindi, ?giudicare negativamente gli altri’.
“In quel tempo Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo, l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: ?O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo’. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: ?O Dio, abbi pietà di me peccatore’. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta, sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. (Lc. 18, 9-14).

Ci vuole una bella ?faccia tosta’ a mettersi ben in vista, ai primi posti nel tempio e tra gli uomini, proclamando la propria giustizia, proprio a Dio, IL GIUSTO, che conosce fino in fondo chi siamo e di quante ombre, oltre che luci, siamo ripieni. Solo davanti agli uomini, che si nutrono tante volte di inganni, pur di affermarsi ed apparire quello che di fatto non sono, possiamo recitare la ?commedia delle bugie’! Quanta gente abbiamo conosciuto che amava i primi posti nella stima nostra e poi, con tristezza, si è scoperto che erano ben altra cosa. Il Vangelo ci invita ad essere umili.

Papa Francesco, in un’omelia alla Casa S. Marta, proprio riferendosi a questo Vangelo, e stigmatizzando l’ipocrisia ha detto: “L’esempio da guardare è quello indicato dal Vangelo: il pubblicano che con umile semplicità prega dicendo: «Abbi pietà di me, Signore, che sono un peccatore». Questa è la preghiera che dobbiamo fare tutti i giorni, nella consapevolezza che siamo peccatori. Dei peccatori che, però, sanno a chi guardare per trovare una redenzione. Tutti noi abbiamo pure la grazia, la grazia che viene da Gesù Cristo: la grazia della gioia; la grazia della magnanimità, della larghezza”.

Così affermava Paolo VI: “Un cristiano superbo è una contraddizione nei suoi stessi termini. Se vogliamo rinnovare la vita cristiana non possiamo tacere la lezione e la pratica dell’umiltà. Come risolvere innanzitutto il contrasto fra la vocazione alla grandezza e il precetto dell’umiltà? Noi abbiamo ogni giorno sulle labbra il ?Magnificat’, l’inno sublime della Madonna, la quale proclama davanti a Dio, e a quanti ne ascoltano la dolcissima voce, la sua umiltà di serva, e nello stesso tempo celebra le grandezze operate da Dio in lei e profetizza l’esaltazione che di lei faranno tutte le generazioni… Il confronto con gli altri ci fa spesso pietosi verso noi stessi e orgogliosi verso il prossimo: ricordiamo la parabola del fariseo e del pubblicano, quando il primo dice di se stesso: ?io non sono come gli altri’, mentre il pubblicano ?non osava neppure alzare gli occhi al cielo e si batteva il petto”. (Omelia, 9 febbraio 1967). A essere sinceri, infatti, cosa abbiamo di ?nostro’? La vita? È un dono. La felicità o i carismi? Sempre doni di Dio. La salute e la bellezza del corpo? Doni di Dio!Se da una parte Dio chiede che i Suoi doni vengano bene amministrati, dall’altra la giustizia vuole che si dia gloria a Chi ci ha fatto tali doni: non appropriarsene, che è superbia!

Dovremmo, in altre parole, essere capaci di imitare la Madonna che, mentre celebra le grandi opere che Dio ha compiuto in Lei, dall’altra si riconosce ?serva del Signore’.Ma quanto è facile ?appropriarsi’ dei doni di Dio, come fossero ?cosa nostra’! Da qui la superbia, in cui satana è maestro, suggeritore. “Cosa abbiamo noi – mi diceva il mio padre spirituale, un vero uomo di Dio – se non le nostre debolezze, la nostra miseria, il nostro nulla? Tutto è di Dio: di nostro il peccato”.

Oggi, dice il Siracide: “Il Signore è giudice e non vi è presso lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né della vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza e la sua preghiera giungerà fino alle nubi. Finché non sia arrivata non si contenta, non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto, rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l’equità”. (Sir. 35, 15-22)

Mi torna sempre alla mente la testimonianza del mio Padre spirituale, il grande don Clemente Rebora, famoso poeta del ?900, che poteva certamente ?raccontare’ quello che aveva vissuto. Stando insieme nei periodi di vacanza alla Sacra di S. Michele, facendo lunghe camminate con lui, io tentavo di fare sfoggio di ciò che avevo letto, soprattutto sui romanzi russi.Lui ascoltava e taceva. Avevo addirittura l’impressione che non li avesse mai letti. Non sapevo che, tra i tanti suoi ?titoli’, da tutti riconosciuto, vi era quello di raffinato e grande conoscitore della letteratura russa! Ma aveva deciso, dopo la sua conversione, di ?oscurare tutto il passato’, come non fosse esistito. L’unica cosa che bramava era ?guadagnare con una vita ascetica e santa il tempo che aveva perso nel mondo’ – così amava dire. Quando seppi chi veramente era stato, mi vergognai della mia stupida voglia di recitare la parte del fariseo.

Forse tanti dei miei amici, che mi seguono, in questa grazia di farsi come ?plasmare dalla Parola di Dio’, conoscono o hanno sentito parlare del mio Fondatore, Antonio Rosmini: un vero gigante della filosofia e della teologia, ma più ancora della santità. Nel suo libretto ?Massime di perfezione’, – da molti conosciuto e che sono le regole della santità -nella quinta massima, intitolata: ?Riconoscere intimamente il proprio nulla’, così afferma: “Il Cristiano deve meditare ed imitare continuamente la profondissima umiltà della Vergine Maria. Nelle divine Scritture la vediamo sempre in quiete, in pace, in continuo riposo interiore.

Di sua scelta la troviamo sempre in una vita umile, ritirata e silenziosa, dalla quale non venne tolta se non dalla voce stessa di Dio o dai sentimenti di carità verso la sua parente Elisabetta.
A giudizio umano, chi potrebbe credere che della più perfetta delle creature umane ci fosse raccontato così poco nelle divine Scritture? Nessuna opera da Lei intrapresa; una vita che il mondo cieco direbbe di continua inazione, e che Dio dimostrò di essere la più sublime, la più virtuosa, la più generosa di tutte le vite. Per essa, quest’umile e sconosciuta giovinetta fu innalzata dall’Onnipotente alla più alta dignità, a un seggio di gloria più elevato di quello dato a qualunque altro, non solo tra gli uomini, ma anche tra gli angeli” (V Massima n. 7). Parole che vengono dal cuore di un uomo, Rosmini, che nella vita conobbe, per un tempo, l’amicizia e la stima incondizionata dei Papi e, improvvisamente, per ?presunti errori teologici’, – ormai sconfessati dalla Congregazione della Dottrina della fede, di cui era Prefetto proprio il nostro emerito e amato Pontefice, Benedetto XVI – fu come esiliato, emarginato, considerato quasi pericoloso per la teologia.

Nel silenzio assoluto impostogli, da lui accolto come volontà di Dio e a sua volta imposto alla Congregazione, a chi gli chiedeva come si sentisse, rispondeva: ?Adorare, tacere, godere’. Aveva la certezza che ?se il grano caduto in terra non muore, non porta frutto’. Ora la Chiesa ha riconosciuto le sue virtù eroiche, proclamandolo beato. L’umiltà porta sempre frutto. Madre Teresa di Calcutta, altra grande santa del nostro tempo, amava dire: “Anche se commetti qualche errore, approfittiamo di questo per avvicinarci a Dio”. DiciamoGli con umiltà: ?Non sono stata capace di essere migliore. Ti offro i miei fallimenti’. E’ lo stesso invito di Papa Francesco:

“Gesù è venuto per noi, quando noi riconosciamo che siamo peccatori. Ma se noi siamo come quel fariseo, davanti all’altare: Ti ringrazio Signore, perché non sono come tutti gli altri uomini,… non conosciamo il cuore del Signore, e non avremo mai la gioia di sentire questa misericordia. Non è facile affidarsi alla misericordia di Dio, perché è un abisso incomprensibile. Ma dobbiamo farlo!…

Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono.
E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si stanca di perdonare. Chiediamo questa grazia!”

P. Antonio Riboldi

Para reflexionar
Cuánto bien se puede hacer cuando existe la gran convicción y la voluntad de hacerlo? No te preocupes por el resto, lo demás viene de la mano? Rcl